La retorica del ritorno al Medioevo

Aperto da Finnegan, 4 Marzo 2019, 12:38:25 AM

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Finnegan

Tra i vari slogan che gli oppositori del DDL Pillon utilizzano per screditarne il valore e la necessità, uno in particolare colpisce per la sua ripetitività: la riforma sarebbe un "ritorno al Medioevo". Una frase che evoca immagini oscure, arretrate, con uomini brutali e donne obbligate alla miserabile vita delle casalinghe maltrattate e sforna-figli. E' una formula molto evocativa, parla alla pancia dell'opinione pubblica e la mobilita fortemente, senza necessità di accendere il cervello. Per chi, critico o meno del DDL Pillon, ritiene indispensabile riformare gli istituti legati alle separazioni e affidi, è fondamentale analizzare a fondo questo slogan, per capire se ha in qualche misura, anche minima, un fondamento.

Ebbene, perché si renderebbe necessaria una riforma? Perché ovunque nel mondo, per lo meno nei paesi più evoluti, la legislazione ha acquisito l'esito di anni e anni di ricerche scientifiche, secondo cui per "prevalente interesse di un minore" si intende una frequentazione il più equilibrata possibile dei due genitori, quando questi si separano. Obiettivo: rendere il meno impattante possibile la disgregazione del legame tra i due genitori, garantire alla prole uno scenario il più simile possibile a quando la coppia era ancora assieme. Si chiama "diritto alla bigenitorialità" ed è davvero difficile, se non tornando appunto al Medioevo, argomentare contro di esso. A fianco a ciò, come forma di equità a sé stante, ma anche come parte integrante del concetto di bigenitorialità, c'è quello del mantenimento diretto: rompendosi il vincolo fiduciario e affettivo della coppia, è corretto che i genitori mantengano la prole ognuno per sé, con ciò rendendosi esempio didattico verso i figli nelle proprie modalità di gestione del denaro, e condividendo soltanto le spese che non è possibile nella pratica gestire autonomamente.

Si tratta di principi che l'Italia ha acquisito e adottato. Per lo meno ci ha provato, con tutti i suoi limiti quando si tratta di legiferare in modo corretto, con una legge risalente non alle invasioni barbariche né ai tempi di Dante Alighieri, ma al 2006. E' di quell'anno la Legge n.54 che in buona misura acquisisce e impone al sistema italiano proprio quei due principi: il diritto del  minore alla bigenitorialità e il mantenimento diretto. Lo fa in modo incompleto, spesso ambiguo: è palesemente il frutto di un compromesso al ribasso tra diverse forze politiche, ma di fatto quei due principi vengono affermati. Fin dalla sua approvazione, però, si trova uno scoglio: quale che ne sia la causa, la magistratura resta ancorata alle modalità pre-2006, continuando a individuare genitori prevalenti, inventandosi figure non previste dalla legge (il "diritto di visita" il genitore "collocatario", eccetera) e tenendosi quanto più lontana possibile da un mantenimento diretto anche solo accennato. Il tutto classificando sentenze palesemente di affidamento quasi-esclusivo come di affidamento condiviso. Una forma sottile di sovversione e falso in atto pubblico, insomma, che per anni si afferma come fosse tutto normale.

Ecco dunque come nasce l'esigenza di riprendere in mano la materia: far uscire l'Italia dal Medioevo, nella materia delle separazioni e affidi, rendendo più efficace una legge e dei principi che ci sono già. Questo tenta di fare il DDL 735, non altro. Lo fa in modo incompleto e con un procedimento non del tutto efficace, ma l'obiettivo resta quello: rafforzare i principi di base con precisione, il rispetto del diritto del minore alla bigenitorialità e specificare i contorni attuativi del mantenimento diretto, aiutando la Magistratura ad assumere decisioni eque. L'unica blanda innovazione della proposta Pillon in realtà sta in altro: il rafforzamento della lotta all'alienazione parentale, in embrione presente già nella Legge 54/2006, l'accentuazione dei tentativi di mediazione ove possibile, e la lotta alle false accuse. Ma si tratta di accessori: la legge è imperniata in una e una sola intenzione, ossia attuare principi già presenti nella legge del 2006 e mai correttamente applicati.

Dove sta il Medioevo in tutto questo? Non c'è, palesemente. E se c'è, è nella mobilitazione di chi avversa una riforma di separazioni e affidi di fatto auspicando che si continui ad avere una legge non applicata, con tutta la connessa sofferenza inflitta ai minori e la sperequazione delle condizioni che finiscono per gravare in genere su un solo lato, quello del ramo paterno. In altre parole, dirsi contro una riforma (quale che sia) delle separazioni e affidi che attui principi già affermati nell'ordinamento significa voler perpetuare una situazione illegale e anticostituzionale come quella che perdura da ormai tredici anni. Eppure ciò che passa non è questo. Nell'opinione pubblica, complici i media, passa la montagna di falsificazioni e bugie che i sostenitori di una siffatta scorrettezza diffondono con grande disinvoltura. A partire dal presunto "ritorno al Medioevo", slogan che così tanto attecchisce.

Ma perché attecchisce? Perché questo appeal di una formula così tanto destituita di fondamento? La risposta è semplicissima e va trovata in un errore strategico (chissà, magari pure voluto) della coalizione attualmente al governo del paese: affidare l'esecuzione del punto specifico del Patto di Governo che tratta questi temi a una persona come il Senatore Simone Pillon. E mi sento di dire che il Senatore Pillon è una persona per bene. Pulita, onesta, in buona fede, leale con se stesso e con ciò in cui crede. Si può essere o meno d'accordo con i suoi valori, ma va riconosciuta alla persona una coerenza rara in un politico, oltre che modi pazienti e garbati, che pure non guastano. Io credo che egli tenga davvero alla necessità di regolare la materia delle separazioni e affidi in modo più chiaro e coerente con la legge già vigente, senza andare minimamente a intaccare diritti già acquisiti, che sono altre partite ben più complesse. E al di là delle imitazioni idiote di Maurizio Crozza, sono certo che non operi spinto da un impulso inquisitorio e retrogrado in salsa misogina alla Torquemada. Nonostante tutto ciò, ha un difetto imperdonabile: è un pro-vita.

Essere pro-vita significa essere contro l'aborto, contro le teorie "gender", riconoscersi in un cattolicesimo attivo e mobilitato per valori coerenti con il proprio credo. Questa sua appartenenza rappresenta l'antitesi più stridente, sul piano ideologico prima ancora che sul piano pratico, con le idee e i principi del radicalismo di sinistra, di cui gran parte del femminismo estremista odierno è una branca. Parlo di quel radicalismo tuttora ancorato a dinamiche alla Don Camillo e Peppone, ma con le modalità conflittuali e l'approccio aggressivo del '68 e del '77. Un armamentario ancora non abbastanza consegnato alla storia, visto che buona parte dell'attuale classe dirigente in circolazione arriva da quel periodo oscuro (quello sì davvero medievale), ma comunque archiviato nella spinta ideologica e nei contenuti. Però... c'è un però. Che è la chiave di lettura un po' di tutto quello che sta accadendo attorno al Senatore Pillon e al suo disegno di legge.

Le megere e i loro supporter uomini urlanti "l'utero è mio e lo gestisco io", oppure "tremate tremate le streghe son tornate", hanno negli occhi, in tutto il loro aspetto il vuoto esistenziale e il tragico bisogno interiore di sentirsi parte di qualcosa che dia un senso. Mobilitandosi su base ideologica, per essi non ha alcun peso che la realtà sia più o meno utile o buona: il procedimento prevede che la si compari con il paradigma ideologico. Se ci entra, bene. Se no, si scatena la furia. Il Senatore Simone Pillon, pur con tutta la buona volontà, non può entrare nel paradigma del femminismo radicale sviluppatosi dalla suppurazione del neo-marxismo. Egli rappresenta, in quanto persona che si riconosce nei valori pro-vita, il nemico, a prescindere, senza se e senza ma, quand'anche presentasse la migliore legge possibile, anche se questa fosse la più avanzata del mondo per i diritti delle donne. Ed è così che il fronte permanentemente mobilitato di fatto non è contro la riforma di separazioni e affidi, lo si capisce dalle argomentazioni parossistiche che esso pronuncia. In realtà è contro Pillon, in una declinazione degradata della nota massima di Schopenhauer: "se non puoi distruggere il ragionamento, distruggi il ragionatore". Essendo il ragionatore l'antitesi dei loro ideali di plastica, gli oppositori del DDL 735 trovano così un modo per dare ragione alla propria esistenza, anche se questo significa sacrificare l'occasione per fare qualcosa di giusto.

In una situazione normale, una proposta di legge si può illustrare, spiegare, criticare, migliorare. Quando il problema non è più il ragionamento ma il ragionatore, non c'è alcuna via d'uscita. Se poi coloro che attaccano il ragionatore facendo finta di attaccare il ragionamento sono ispirati solo da motivazioni ideologiche, il fallimento, il disastro, l'occasione perduta sono dietro l'angolo. Ancor più se media e politici cinici fino al disgusto si allineano per interesse a quell'estremismo. Ed è così, dunque, ora, la fine della storia. Una fine tristissima. In questo paese non conta ciò che si propone ma chi la propone, e se tale persona rientra o no nei crismi di un'ideologia che si afferma perché tanta, troppa gente ha condotto la propria vita così male da diventare una nullità bisognosa di contenuti precotti per sentirsi sensata. La vicenda del DDL Pillon lo dimostra in modo palese a chi ha occhi per vedere: chi denuncia il rischio del ritorno al Medioevo è esso stesso il Medioevo sociale, dello spirito, della cittadinanza, che non intende affrancarsi dalla propria assenza di senso né, per chi si mette a capo di questa moltitudine di anime morte, dai propri cinici interessi.
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Derry

Tutto chiarissimo e condivisibile.
La cosa che non finisce mai di stupirmi è come la tecnica del distruggere il ragionatore se non si riesce a distruggere il ragionamento, sia stata recepita a tal punto dai comunisti nostrani e loro nipotini variamente camuffati, che la usano senza neppure accorgersi di quello che accade sotto i loro stessi occhi.
Quando uno è talmente ottenebrato dall'ideologia da perdere di vista la realtà delle cose, allora è veramente pericoloso, per se stesso e per gli altri: almeno il comandante del Titanic, quando si accorse dell'errore commesso, dette l'ordine: "Indietro tutta". :dash2:
"Nothing can stop the man with the right mental attitude from achieving his goal; nothing on earth can help the man with the wrong mental attitude."

Finnegan

Il mito del progresso (stalinista) non cessa di far danni. Oggi l'ordine sarebbe "avanti tutta" per non ammettere lo scacco dell'ideologia.
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johann

#3
no dico cosa si deve pensare quando si legge " ritorno al Medioevo". Una frase che evoca immagini oscure, arretrate, con uomini brutali e donne obbligate alla miserabile vita delle casalinghe maltrattate e sforna-figli

Ca**o, ormai qua quando ci si rifa' al passato, a qualunque titolo e per qualunque analisi, sembra diventato OBBLIGATORIO in premessa versare l'obolo alla demagogia femminista, anteponendo a ogni considerazione la genuflessione culturale al  "peccato originale" laicista: IL PATRIARCATO responsabile a quanto pare di secoli di noia delle femmine "costrette"  nel loro ruolo naturale  a vivere in casa  ed ad accudire la prole 
come se questo fosse diventato il "crimine" più infamante che sia mai stato commesso su questa terra dai tempi di adamo ed eva, una cospirazione antifemminile che discende dall'olimpo cosmico e che ha nei maschi gli aguzzini prescelti e' ora in questo frangente storico il mondo intero dovrebbe trattenere il fiato in attesa della definitiva espiazione da parte maschile di tanto torto ancestrale !!   
                                                                   Baaasta!!
Escluso il "maschiciume" effeminato e sinistrorso, non mi si venga a dire che qualcuno ha finito per crederci veramente in queste stupidaggini, NON E' POSSIBILE assistere a un simile lavaggio del cervello collettivo fatto di tanta palese falsità' e menzogna pseudostorica 
Va bene che tutto e' relativo e' che si e' superato ogni limite alla decenza ma basta un atomo di retto buon senso per cogliere in questa logica la mostruosa macchinazione culturale che si sta veicolando
NO dico! adesso quando si va a consuntivo storico in materia di lavoro fatica e sacrificio, BISOGNA escludere l'apporto maschile e limitarsi a celebrare l'ambito domestico dove si consumerebbe da sempre il "sacrificio" femminile: cucinare, lavare, pulire  il tutto declinato come servigio subordinato verso la componente maschile come se loro  fossero eteree e quindi esentate dal dipendere dai "volgari" bisogni fisiologici naturali (mangiare bere scopare ecc) lasciati volentieri ai maschi visti sempre più prossimi al mondo animale 

Nemmeno mi ci metto a rettificare in merito al medioevo alla "umberto eco", sul quale ho già scritto precedentemente invitando chi ha sufficiente rispetto di se stesso di rigettare la storiografia "ufficiale" e di leggersi i libri giusti, o anche solo di contemplare una cattedrale gotica come reims per riconoscere il grado e la qualita' del "sapere" messo in atto per costruirla  e poi riflettere se quei secoli sono stati proprio cosi "bui" come dicono
Rimane da compatire per non cedere al linciaggio culturale tutta quella vile umanità' inutilmente appesantita di attributi maschili, che rispetto alle femmine giace sdraiata (in tutti i sensi) anzi distesa in orizzontale a formare i binari sui quali scorre in discesa il treno nazifemminista

Non e' possibile che nell'approccio tra il mondo maschile verso quello femminile  come "stallatico" di risulta del secolo 800 rimane ancora  traccia nel costume sociale di un certo galateo sessista prodigo di ossequio e indulgenza culturale verso il mondo femminile  sempre pronto a farsi carico e a soccorrere le donne nei loro gravami  esistenziali arrivando al punto di farsene carico anche nel senso della colpevolezza, non a caso per i rinnegati dei maschi odierni la parola più proferita in ogni situazione (soprattutto con le consorti) e' : scusa! 

Basta!   luridi leccaf****  infami bipedi antropomorfi, scimmie da compagnia al guinzaglio fisico e psicologico delle femmine, siete voi che per primi vi offrite gratuitamente nel trasportare il peso della portantina ideologica femminista sulla quale le femministe se ne stanno come odalische gaudenti
Siete sempre voi i primi a disprezzare e colpevolizzare i maschi (in teoria voi stessi) quelli che si sentono il dovere cavalleresco di difendere il "gentil sesso"  esponendovi in prima persona a fare da bugliolo sul quale le "vostre"  femmine in primis sono use defecare le proprie isterie

secondo voi se diamo per buona la minchiata delle femmine soggiogate e sfruttate nei secoli i maschi sarebbero sempre vissuti a loro spese come giullari goderecci  spendendo il loro tempo tra gozzoviglie e bisbocce. 
Ma allora  che stupidi i miei avi maschi, che invece hanno consunto la loro vita a lavorare i campi con ogni tempo con arnesi autocostruti (oggi rigettati anche per curare un fazzoletto di orto) per strappare con i denti alla natura matrigna l'indispensabile per far sopravvivere le proprie famiglie
Oppure che stupidi quegli uomini, delle mie parti chiamati "giararoli"  (estrattori di ghiaia): in alcuni punti del fiume esisteva una disperata e inumana (girone dantesco) attivita' di estrazione della ghiaia dal letto del fiume per essere utilizzata nell'edilizia e nelle strade, lascio alla clemenza dell'immaginazione dei lettori i dettagli sui loro metodi e strumenti,  basta pensare che per rabbonire la fatica fisica erano quasi sempre ubriachi di fondi di vinacce
e via  cosi'!  pensiamo al lavoro in miniera nei boschi nelle fornaci in mare sotto le armi, quanti uomini stolti sono vissuti!?
Ho visto alla tv che nel sud est asiatico ci sono degli "sherpa" locali che  guadagnano il necessario per le proprie famiglie facendo diversi "viaggi" al giorno fin sopra un vulcano per estrarre lo zolfo e se tornano indietro con mezzo quintale sulle spalle
ecc ecc  quanto lungo lo vogliamo fare l'elenco??

Che stupidi tutti questi maschi che si sono abbruttiti e inselvatichiti dal bestiale prezzo fisico e morale che hanno dovuto pagare, che hanno sudato sangue consumando la propria vita sulla trincea avanzata del massimo sacrificio e sofferenza fisica devolvendo l'80 il 90% del frutto del proprio lavoro alla famiglia e alla propria moglie   
Che stupidi tutti questi maschi che hanno immolato a milioni le proprie vite In guerre e conflitti
Che stupidi tutti questi maschi che non hanno mai preteso riconoscimento per il proprio lavoro e che si sono ridotti nella considerazione propria e femminile a una specie di automa meccanico dalle prestazioni ovvie e scontate
Che stupidi tutti questi maschi che hanno devoluto all'umaniata tutta l'universo delle loro scoperte scientifiche e le loro  infinite meravigliose applicazioni tecnologiche

Ecco,  penso che tutto il gran can femminista esiste e trova spazio solo perché c'e un grande vuoto da occupare lasciato libero dal sostanziale menefreghismo che il mondo maschile ha sempre provato per se stesso, l'assenza di fierezza l'assenza di autostima impedisce ai maschi di viversi  in pienezza rivendicando il "copyright" di quasi tutto l'esistente su questo pianeta
Oggi basta fare zapping con la tv e ci si rende conto che anche nella pubblicita' ai maschi e NEGATO rivendicare a se stessi qualunque merito di qualsivoglia tipo (positivo ovviamente) perche cio arreca offesa al politicamente corretto femminista, mentre in senso negativo siamo colpevoli di tutto anche di esistere

Per come la vedo io bisogna lavorare per scindere gradualmente la dimensione maschile da quella femminile in tutti gli ambiti bisogna spezzare ogni "link" fisico e culturale che oggi genera quell'infame "moto a luogo" che vede sempre i maschi bighellonare dietro alle femmine per il motivo che sappiamo (benvenga l'aiuto anche della chimica se serve a ridurre la libido e la dipendenza da f**a)
Dobbiamo smettere di cedere alle femmine gratis tutte le nostre quote di conoscenza ed esperienza (specialmente in ambito lavorativo)

Le femministe ormai pretendono spudoratamente il confronto/scontro diretto tra i sessi in tutti gli ambiti e questo loro "coraggio" deriva soltanto dalla sicurezza che i maschi in fondo sono gli stupidi di sempre, cominciamo a vederle e trattarle senza pietà' "al maschile" come competitor , come avversari da battere, come contendenti che insidiano i nostri interessi, e vedrete che l'isussistenza sostanziale delle femmine verra a galla in tutta la sua pochezza  allora si che le cose cominceranno a cambiare
Un uomo che è un uomo DEVE credere in qualcosa (dal film: il mio nome è nessuno)

Finnegan

#4
Gli uomini devono senz'altro ritrovare il loro orgoglio ma attenzione a non alzare ancora di più il muro tra i sessi come già fatto dla femminismo.
Con le donne occorrono dignità e fermezza, "autorità" non scortesia che è un segno di debolezza.
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Riverrun, past Eve and Adam's, from swerve of shore to bend of bay, brings us by a commodius vicus of recirculation back to Howth Castle and Environs

johann

♫♪ Viva la rai! coi cappoccioni e gli operai  ♪♫♪♪..........  della disinformazione di regime!
Lungi da me fare l'apologia di questo paradigmatico carrozzone statale le cui tare sono il riverbero di quelle della societa' italiana tutta, diversa ma alla fine sempre irrimediabilmente uguale a se stessa,  a cui anzi la rai ha concorso a deteriorarne ancora di più la coesione (ammesso che gli italiani siano mai stati "fatti")
La rai se analizzata con sufficente distacco e il paradigma del crollo dell'integrità culturale di questo paese, che già era messo male di suo, infatti la rai non si e' mai spesa per far prediligere alle cupole del cremlino da una parte o la "new age" dall'altra i veri riferimenti della cultura nazionale (da dante a manzoni passando per l'enorme lascito del nostro passato cristiano)
C'è stato un tempo nel quale almeno rai 1 dava voce e considerazione alla millenaria tradizione cattolica, adesso invece nonostante gli avvicendamenti al vertice (che sembra situato su marte) sotto la verga ideologica dei novelli quadri cattoprogressisti  alla renzi  siamo alla "messa in tavola" finale del proposito di un altro pseudocattolico il vostro presidente mattarella di "pacificare l'infinito" dopoguerra nazionale sulla cultura di sinistra comunista prima, progressista adesso, con l'apporto defezionista di parte della chiesa 
La riprova e il remake fatto da rai fiction del film anni 80 il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud,  basato a sua volta sull'omonimo libro di umberto eco
Impossibile infatti non notare l'operazione culturale che soggiace sotto a questa operazione "culturale" tutta tesa a "ratificare " come acquisite alla storia ufficiale tutte le sottili e acute mistificazioni storiche di cui il libro  di eco  e "non a caso" pieno zeppo 
Per chi vuole dedicarsi la pazienza di leggerlo allego qui di seguito un testo di  Massimo Introvigne  il quale ha il pregio di disossare le tante falsità escatologiche presenti in questo romanzo per restituirgli la realtà di quello che e' stato:
una magistrale operazione di coercizione ideologica anticattolica che ha inaugurato un vero e proprio filone, di letteratura ideologica "cinematografata"  fino all'ultima pellicola in ordine di tempo il film agora


1. La trama
Negli ultimi mesi ha avuto larghissima circolazione in tutto il mondo il film di Jean-Jacques Annaud Il nome della rosa, realizzato - come recitano i titoli di testa - "sul palinsesto del romanzo di Umberto Eco", che a sua volta - con oltre cinque milioni di copie diffuse in venticinque lingue - viene celebrato come il libro di autore italiano più venduto di tutti tempi (1).
Sarebbero sufficienti le dimensioni del fenomeno a rendere opportuno un suo esame critico, a cui mi sembra utile premettere - per chi già non la conoscesse - un breve accenno alla trama.
Nel novembre 1327 si incontrano, presso una imprecisata ma ricca abbazia benedettina dell'Italia Settentrionale, per una disputa sulla povertà di Cristo e della Chiesa, una delegazione francescana - di cui fa parte il protagonista, Guglielmo da Baskerville, che è accompagnato dal giovane novizio Adso da Melk - e una legazione pontificia guidata dall'inquisitore domenicano Bernardo Gui. Nell'abbazia sono rifugiati due ex eretici della setta estremista dei dolciniani, che conducono vita sregolata e di notte fanno entrare nel convento una ragazza del vicino villaggio, che finirà per sedurre il giovane Adso. La vita dell'abbazia è sconvolta da una serie di oscuri delitti su cui indagano, con metodi diversi, Guglielmo da Baskerville e Bernardo Gui. L'inquisitore identifica i responsabili nella ragazza, che scambia per una strega, e nei due ex dolciniani. Nel romanzo questi presunti colpevoli vengono condotti da Bernardo Gui verso Avignone, e di loro non si sa più nulla; il film mette invece in scena - presso l'abbazia stessa - la loro condanna e immediata esecuzione sul rogo, seguita da un'improbabile rivolta di contadini - in cui l'inquisitore trova la morte -, che riesce a salvare almeno la ragazza. Nel frattempo Guglielmo da Baskerville - in una notte di tregenda, in cui l'abbazia è distrutta da un incendio - scopre il vero assassino: è il vecchio monaco cieco Jorge, che ha ucciso per impedire che venisse alla luce il perduto libro secondo della Poetica di Aristotele, un'opera pericolosa per la Chiesa perché vi si esalta l'umorismo che "uccide la paura, e senza la paura non ci può essere la fede. Senza la paura del demonio non c'è più la necessità del timore di Dio" (2).

2. Il "film": un Medioevo di cartapesta
Il film, molto meno complesso del libro, si concentra su due temi noti alla propaganda anticattolica di tutti i tempi: la corruzione dei monaci e gli orrori dell'Inquisizione. Stanca ripetizione di temi noti: contro monaci e inquisitori avevano tuonato la propaganda protestante e i libelli illuministi; contro inquisitori e monaci si scagliava la letteratura popolare ottocentesca di ispirazione massonica. I benedettini vengono dipinti con una galleria di volti deformati, sadici e volgari; i vizi più inconfessabili si danno convegno nell'abbazia mentre i pezzenti del villaggio si scannano per accaparrarsi gli avanzi gettati via dal monastero. Un quadro grottesco, non compatibile neppure con l'incipiente decadenza del monachesimo nel secolo XIV, e che si prende qualche libertà anche con il romanzo dove - se la ragazza rappresenta un caso isolato di miseria - il cantiniere Remigio ha cura di precisare che il villaggio non è povero - "una famiglia normale laggiù possiede anche cinquanta tavole di terreno" - e liberalmente beneficiato dall'abbazia (3). Ma il danno agli spettatori più semplici è fatto: chi, uscito dalla proiezione de Il nome della rosa, ricorderà più che proprio i benedettini hanno fatto la nostra Europa, trasmettendo tesori di cultura - ma anche di conoscenze tecniche e agricole - e costruendo nei secoli punti di riferimento per i poveri e per i sapienti?
Sul tema dell'Inquisizione - che dilata in modo abnorme rispetto al romanzo - il film riapre vecchi armadi polverosi, pieni di arnesi dimenticati da qualche decennio: catene, ferri roventi, segrete, cortei notturni con torce ardenti. Ne nasce un quadro in cui nulla è vero.
Bernardo Gui inquisitore ignorante e feroce: menzogna. Procuratore generale del suo ordine "per la sua vasta produzione, specialmente storica, la ricca e minuta informazione e lo studio dell'esattezza, il G[ui] è considerato uno dei più notevoli storici del primo Trecento, come pure il migliore storico domenicano del medioevo" (4). Oggi gli specialisti hanno completato lo spoglio dei suoi processi inquisitoriali: su novecentotrenta imputati, dal 1308 al 1323, "se ne trovano soltanto 42 rimessi al braccio secolare", mentre altri sono condannati a pene minori, spesso di straordinaria mitezza, e centotrentanove assolti (5). Bernardo Gui impegnato nella caccia alle streghe: menzogna. Presso Bernardo e gli inquisitori suoi contemporanei "è sempre modestissimo il numero degli accusati per pratiche stregoniche" (6), del resto di competenza dei vescovi e non degli inquisitori, a meno che la stregoneria si presentasse mescolata all'eresia. Anche in epoche successive la caccia alle streghe nascerà nei paesi protestanti, mentre la Chiesa cattolica si sforzerà piuttosto di controllare e di frenare una reazione nata dal popolo e gestita, non sempre con il necessario discernimento, dai tribunali laici dei principi (7). La tortura generalizzata e indiscriminatamente applicata: menzogna. L'Inquisizione del secolo XIV - a differenza dei tribunali laici del tempo - usa in casi rarissimi la tortura di cui - secondo un decreto del 1311 di Papa Clemente V - l'inquisitore non può, da solo, decidere di servirsi: deve sospendere il procedimento e instaurare "un giudizio speciale, al quale partecipi il vescovo o il suo rappresentante" 8. L'inquisitore che decide in poche ore senza difesa né appello, e anzi enuncia il principio che "chiunque contesta il verdetto di un inquisitore è lui stesso un eretico": menzogna. È l'Inquisizione del secolo XIV che inventa la giuria, consilium che mette l'imputato nella condizione di essere giudicato da un collegio numeroso - spesso di trenta o anche di cinquanta giurati -, dove molti "diventano di conseguenza gli avvocati dell'accusato" ed è l'inquisitore che, davanti alla loro muta, si trova piuttosto in situazione di inferiorità". Del resto l'imputato ha diritto di difendersi e "può produrre testimoni a discarico"; "può anche ricusare i suoi giudici e, in caso di rifiuto di questa ricusazione, ottenerla mediante un appello a Roma" (9). La sentenza eseguita subito dopo la condanna, i rei confessi - e perfino il demente Salvatore - bruciati, il rogo organizzato direttamente dal domenicano inquisitore: menzogna. Nel processo inquisitoriale - lungo e complesso - i rei confessi e pentiti possono essere condannati soltanto a pene minori; è il potere laico, il braccio secolare - e mai la Chiesa -, a occuparsi dell'esecuzione delle condanne. Il popolo, infine, che insorge e uccide Bernardo Gui: menzogna. Gli storici, anche i più ostili alla Chiesa, confermano invece la notevole popolarità dell'Inquisizione presso il popolo, che se ne vedeva protetto dalle vessazioni di eretici che - come i catari e i dolciniani - non di rado trascendevano in violenze e in stragi.
Bernardo Gui morì tranquillamente nel suo letto, dopo essere stato nominato vescovo di Túy nel 1323 e poi di Lodève nel 1324.

3. Il libro: un'apologia della modernità
1. Un romanzo pseudo-storico
Il libro di Umberto Eco può essere letto a tre diversi livelli: come romanzo pseudo-storico; come romanzo ideologico a tesi; e come romanzo iniziatico, che contiene anche un senso nascosto. La lettura più facile è quella pseudo-storica del Medioevo di cartapesta, a cui corrisponde il film. Di alcune delle menzogne di fatto della pellicola non sembra direttamente responsabile il romanzo, che contiene però sul Medioevo e sull'Inquisizione le menzogne di principio fondamentali.
L'Inquisizione viene presentata nel romanzo come un tribunale ideologico, inteso a reprimere ogni possibile discussione di una serie di tesi razionalmente insostenibili, che potevano essere imposte solo con la forza delle armi e dei roghi, seminando il terrore attraverso la continua denuncia e perfino la "creazione" di un nemico. "Spesso - osserva Adso - sono gli inquisitori a creare gli eretici". E un tribunale ideologico non può che condannare sempre e comunque: "Sarai dannato e condannato se confesserai - dice Bernardo Gui al suo imputato -, e sarai dannato e condannato se non confesserai, perché sarai punito come spergiuro!" (10). Lo spoglio statistico delle sentenze dell'Inquisizione, da cui si ricava la bassa percentuale di condanne, ha ormai dimostrato che questa tesi è falsa. Ma non meno falsa è la sua premessa: l'Inquisizione nasce tardi, verso la fine del Medioevo propriamente detto, non a fronte di eretici immaginari ma come reazione agli eccessi reali e concreti di movimenti come i catari, portatori di un "totalitarismo della morte" apologista del suicidio e dell'omicidio degli oppositori, e - più tardi - come i dolciniani, impegnati a mettere a ferro e a fuoco i villaggi in nome di un'utopia comunistica. Senza escludere deviazioni ed errori tipici di ogni tribunale umano, non si può che concludere che l'Inquisizione dei secoli XIII e XIV "è stata il modo necessario di affrontare un antigene sociale molto pericoloso" (11). Affermare il contrario significa liquidare un secolo di studi scientifici sull'Inquisizione per tornare al museo degli orrori dei romanzi di appendice del secolo scorso.
Fuorviante è poi, nel romanzo, l'elemento di supporto della trama, cioè il desiderio della Chiesa di occultare un volume che - con l'autorità di Aristotele - avrebbe pericolosamente legittimato, insieme con la commedia, l'umorismo, nemico della fede perché può liberare dalla paura su cui la religione si fonda. La tesi non è minimamente plausibile. I benedettini del Medioevo hanno salvato con amore anche il legato del mondo classico relativo alla commedia, pure spesso moralmente discutibile. Come ha mostrato Hans Urs von Balthasar, il Medioevo - oltre la critica rigida della patristica - ha dato inizio alla rivalutazione del teatro (12). Nella Summa Theologiae di san Tommaso si afferma, nella questione 168 della Secunda Secundae, che, se l'umorismo vano e malizioso deve essere evitato, l'umorismo di suo costituisce una manifestazione della razionalità umana che può essere perfino virtuosa. Di più: nella mancanza di senso dell'umorismo - "in defectu ludi" - si trova "un qualche peccato", perché "tutto quanto è contro la ragione nelle cose dell'uomo è vizioso", e mancare di umorismo significa spesso rivelarsi poco ragionevoli, "molesti agli altri", "duri et agrestes" secondo l'espressione dello stesso Aristotele (13). Sono questi i medioevali de Il nome della rosa: cupi, tetri, in perenne quanto morbosa attesa di disastri apocalittici?
2. Un romanzo ideologico
Il nome della rosa è essenzialmente un romanzo ideologico a tesi, che intende indurre il lettore a scegliere come giusta una delle due posizioni in conflitto nel secolo XIV nella disputa sulla povertà - la Armutsstreit, come la chiama la storiografia tedesca - fra una parte dell'ordine francescano e la curia pontificia di Avignone. Nel film la disputa viene ridotta al semplice quesito se Cristo fosse o meno proprietario delle proprie vesti. Qualche spettatore della pellicola potrà quindi stupirsi nell'apprendere che uno dei massimi storici del diritto viventi, Michel Villey, ha visto nella Armutsstreit "uno degli eventi capitali nella storia della filosofia del diritto", sia privato che pubblico (14). In realtà la posta in gioco nella disputa era la nascente ideologia della modernità - la tesi di cui si vuole convincere il lettore de Il nome della rosa - nelle sue tre principali dimensioni, cioè quelle filosofica, giuridica e politica.
a. Guglielmo da Baskerville è la figura abbastanza trasparente - quando parla di filosofia - di un altro Guglielmo francescano, inglese e nemico di Papa Giovanni XXII, Guglielmo di Occam, di cui nel romanzo si dice amico e discepolo. La filosofia di Guglielmo di Occam è il nominalismo relativista secondo cui si conoscono soltanto le realtà individuali - questo cavallo, quest'uomo -, mentre i presunti "universali" - l'uomo, il cavallo - sono semplici segni che servono a connotare - cioè a "notare insieme" - gruppi di realtà individuali, di cui esprimono - peraltro in modo incerto e impreciso - qualche generale rassomiglianza. Il metodo di Guglielmo da Baskerville è certamente quello di Sherlock Holmes - il suo nome fa riferimento al romanzo holmesiano Il mastino dei Baskerville e Adso assona con Watson -; ma già il filosofo marxista Ernst Bloch aveva considerato il metodo "detettivo" del romanzo poliziesco come figura popolare della logica moderna, il cui frutto più maturo sarebbe appunto il marxismo (15). All'inizio del romanzo, in una scena tipicamente holmesiana, Guglielmo stupisce i suoi interlocutori descrivendo nei più minuti particolari, da qualche tenue traccia, un cavallo che non ha mai visto; quando Adso-Watson gli chiede come ha fatto, risponde con una lezione di occamismo, spiegando che "tra la singolarità della traccia e la mia ignoranza, che assumeva la forma assai diafana di un'idea universale", ha scelto la traccia singola, senza correre dietro alle idee universali che sono "puri segni", ed è così pervenuto alla "conoscenza piena", che è "l'intuizione del singolare" (16). È grazie alla nuova logica di Occam che Guglielmo da Baskerville risolve gli enigmi dell'abbazia, mentre il tomista Bernardo Gui, che ragiona per universali, segue piste false; ed è con un motto nominalista che il romanzo si chiude: "Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus", "La rosa originaria - la presunta essenza della rosa - consiste in un nome, noi non abbiamo che nudi nomi".
Le conseguenze del nominalismo occamista sono di straordinaria gravità: se si conosce soltanto l'individuale, ogni presunta verità che vada al di là dell'individuale singolare e provvisorio è del tutto malferma; ultimamente, la verità non esiste. Guglielmo da Baskerville non sfugge a questa conclusione; e anzi la esprime nei termini brutali del "pensiero debole" del secolo XX: "Le uniche verità che servono sono strumenti da buttare", "l'unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità" e perfino "il diavolo è [...] la verità che non viene mai presa dal dubbio. Il diavolo è cupo perché sa dove va" (17). Il primo arcano della modernità svelato dal romanzo di Umberto Eco è il relativismo scettico: fuori dal relativismo vi è solo "la passione insana per la verità", chi "sa dove va" è un "diavolo" che si esprime nell'intolleranza e nei roghi e che deve essere a ogni costo combattuto.
b. Sul piano del diritto, come ha mostrato in particolare Michel Villey, dal relativismo occamista deriva il positivismo giuridico, "prodotto del nominalismo. E della dottrina di Guglielmo di Occam" (18). Se non esiste la verità, non esistono neppure le verità: non esiste un ordine naturale che possa essere fonte di un diritto naturale, ma fonti del diritto sono soltanto le espressioni positive di una volontà individuale. Sul piano del diritto privato si rovescia la nozione di jus, che non è più id quod iustum est, la "parte" o porzione giusta assegnata a ciascuno secondo equità, ma è - per Guglielmo di Occam - il "diritto soggettivo", già in senso moderno, il potere concesso da qualche norma positiva di far valere la propria potestà. Questa autentica rivoluzione giuridica nasce proprio dalla disputa sulla povertà dei francescani, i quali affermano di non avere la proprietà ma solo l'uso di tutti i loro beni, come aveva - dicono - lo stesso Gesù Cristo. Ma - afferma Papa Giovanni XXII - la separazione fra proprietà e uso è una finzione, almeno per i beni che i francescani godono in perpetuo e per i beni consumabili come il cibo e le vesti: non si può avere l'uso del pezzo di formaggio che si mangia senza averne anche la proprietà. Se per jus si intende "la parte dei beni che ci viene attribuita secondo giustizia", il Pontefice ha ragione, e lo stesso san Francesco aveva un diritto di proprietà sul pane che mangiava; per contraddire questa tesi "bisogna cambiare la nozione di jus, darle un significato più ristretto e in qualche modo peggiorativo; bisogna ridurre il diritto a strumento di coercizione materiale, al potere di difendersi davanti al giudice". È a questo potere di difendere i beni che i francescani - e già Cristo e gli Apostoli - hanno - secondo Occam - rinunciato; ma il diritto di proprietà consiste appunto in questo. Questioni pedanti e superate? Tutt'altro: il mutamento della nozione del diritto di proprietà, e del diritto in genere, comporta "una vera e propria rivoluzione copernicana nella storia della scienza del diritto". Siamo "di fronte alla frontiera che divide due mondi diversi" (19): il mondo del diritto naturale classico e cristiano e la modernità, di cui il positivismo giuridico - con la separazione del diritto dall'ordine morale - costituisce, dopo il relativismo, il secondo arcano rivelato da Il nome della rosa.
c. Gli effetti del positivismo giuridico sono particolarmente gravi sul piano del diritto pubblico, dove nasce lo Stato moderno, sovrano assoluto nel senso di solutus ab, "sciolto da" qualunque controllo o vincolo superiore alla sua volontà. Se non esistono verità e valori, non vi è nessun criterio o istanza superiore in base a cui giudicare lo Stato e le sue leggi. E lo Stato certamente non può essere giudicato dalla Chiesa: Guglielmo da Baskerville e i suoi amici vogliono una "Chiesa povera", ma non nel senso - come pretende ingenuamente il film - di una Chiesa che rinuncia alle sue ricchezze e le distribuisce ai poveri. Non è questo tipo di riforma ecclesiastica che interessa Guglielmo da Baskerville: "Povera - precisa - non significa tanto possedere o no un palazzo, ma tenere o abbandonare il diritto di legiferare sulle cose terrene". La "Chiesa povera" dei "teologi imperiali" è una Chiesa confinata in sacrestia, che rinuncia a giudicare la politica e le leggi: "Il dominio temporale e la giurisdizione secolare nulla hanno a che vedere con la chiesa e con la legge di Cristo Gesù". "I minoriti - Guglielmo lo ammette - fanno il gioco imperiale" di Ludovico IV il Bavaro, una figura chiave nella genesi dell'Europa moderna, il primo imperatore che si fa incoronare a Roma non dal Pontefice ma da un laico, e per di più da quello Sciarra Colonna che era stato uno dei responsabili dello schiaffo di Anagni, l'oltraggio alla Chiesa che, con la sua carica simbolica, aveva posto fine - secondo molti storici - al Medioevo propriamente detto. Poiché poi nel secolo XX gli imperatori, anche se laicisti e miscredenti, non sono più di moda, Guglielmo da Baskerville si premura di dichiarare che - una volta garantita la laicità dello Stato - lui e il suo amico Marsilio da Padova preferirebbero alla monarchia imperiale una "assemblea generale elettiva", per cui però sfortunatamente "i tempi non sono maturi" (20). Ma in realtà il problema non consiste tanto nella forma dello Stato quanto nella estensione dei suoi poteri. Lo Stato laico moderno non si emancipa solo da possibili rischi di prevaricazioni clericali; si emancipa da qualunque controllo e limite e pone le premesse del totalitarismo, secondo un processo che è stato colto da autori cattolici ma anche da un maestro del neoliberalismo come Friedrich August von Hayek (21). Il nome della rosa mette in scena - è il terzo arcano della modernità - il momento sorgivo dello statalismo moderno. Lo statalismo non può che essere contro la Chiesa, perché una Chiesa libera si sentirà libera di criticare l'autorità politica, ed è una sfida che il potere totalitario non può tollerare. Lo afferma - sulla scia di Marsilio da Padova - Guglielmo da Baskerville: "Se il pontefice, i vescovi e i preti non fossero sottomessi al potere mondano e coattivo del principe, l'autorità del principe ne verrebbe inficiata" (22).
3. Un romanzo iniziatico
Si sa che Umberto Eco è un grande appassionato di enigmi e di enigmistica, e Il nome della rosa è un romanzo insieme enigmistico ed enigmatico. Enigmistico, perché - come afferma la stessa manchette del volume - contiene una serie di "giochi" da risolvere, fra cui un "giallo di citazioni" non denunciate come tali. Esula dalle mie intenzioni seguire fino in fondo il gioco, anche se alcuni degli enigmi sono interessanti, perché rivelano citazioni occulte di autori fra i più radicalmente anticattolici del nostro secolo come Georges Bataille - a cui si deve la tesi secondo cui il suppliziato sperimenta un'estasi del dolore paragonabile alla mistica (23) - e Roger Peyrefitte, dal cui romanzo Le chiavi di San Pietro è tratta quasi letteralmente la pagina sulle false reliquie (24). Il romanzo è insieme enigmatico perché alcune tesi possono non emergere a una prima lettura del testo e si rivelano progressivamente: si può quindi parlare anche di romanzo iniziatico (25).
Quando il retto uso della ragione va perduto, l'errore può manifestarsi come razionalismo o come irrazionalismo. Il proprium della modernità consiste nel fatto che razionalismo e irrazionalismo si manifestano insieme, come due facce della stessa medaglia. Alla "corrente fredda" razionalista e positivista della modernità si accompagna una "corrente calda" che fa della Rivoluzione una religione atea, che si esprime in simboli e miti; così la massoneria, vestale della modernità, coniuga il più estremo razionalismo e il più improbabile irrazionalismo esoterico, il comunismo è insieme materialismo e religione secolarizzata come adorazione filosofica del divenire, e così via. La distinzione fra le due correnti, calda e fredda, è di Ernst Bloch e le citazioni implicite di Bloch ne Il nome della rosa abbondano; sua è la tesi del "filo rosso" che legherebbe le speculazioni di Gioachino da Fiore, le eresie medioevali, il dipanarsi della modernità e il marxismo. La "corrente calda" della modernità coincide, sostanzialmente, con quella che il cardinale de Lubac ha chiamato "la posterità intellettuale di Gioachino da Fiore": una posterità che, in diversi modi, secolarizza l'aspirazione mistica del monaco calabrese verso una prossima aurea "età dello Spirito Santo" trasformandola in mito rivoluzionario (26). Per intendere il senso occulto de Il nome della rosa può essere utile distinguere fra una posterità speculativa di Gioachino da Fiore - nel romanzo rappresentata da Ubertino da Casale -, che legge l'età dello Spirito Santo come meta di una storia in progresso animata da Dio, ma vorrebbe mantenere una apertura alla trascendenza e conservarsi ancora cattolica, e una posterità rivoluzionaria, che trascrive il sogno gioachimita dall'eternità escatologica al futuro politico (27). Nel romanzo di Umberto Eco il gioachimismo speculativo, che vuole ancora salvare la trascendenza, si rivela perdente di fronte al gioachimismo rivoluzionario. È vero: Guglielmo da Baskerville disapprova il gioachimismo utopistico delle bande dolciniane che vogliono imporre il comunismo con il ferro e con il fuoco. Ma il suo giudizio lucido e spietato sulle eresie utopistiche è desunto, quasi letteralmente, da Ernst Bloch. Il gioachimismo utopistico degli eretici è il grido dei "lebbrosi", dove per "lebbrosi" si intendono le masse subalterne del proletariato Lumpen, "cencio": gli "esclusi, poveri, semplici, diseredati". "Tutte le eresie sono bandiera di una realtà dell'esclusione. Gratta l'eresia, troverai il lebbroso". "I semplici [...] hanno ragione perché posseggono l'intuizione dell'individuale, che è l'unica buona" - naturalmente in una prospettiva occamista -, "ma questa intuizione, da sola, non basta": lasciata a sé stessa "l'esperienza dei semplici ha esiti selvaggi". Per raggiungere il suo scopo il gioachimismo rivoluzionario dovrà passare "dall'utopia alla scienza"; ci penserà - e qui Guglielmo mette in scena le profezie di un altro suo maestro, Ruggero Bacone - una "nuova scienza della natura", una "grande impresa dei dotti per coordinare, attraverso una diversa conoscenza dei processi naturali, i bisogni elementari che costituivano anche il coacervo disordinato, ma a suo modo vero e giusto, delle attese dei semplici. La nuova scienza, la nuova magìa naturale" (28). Scienza e magia, ma soprattutto gnosi: nel gioachimismo secolarizzato alla Ernst Bloch - che implica certamente un salto rispetto a Gioachino da Fiore, ma un salto che diventa quasi inevitabile nel gioco intrecciato delle sue posterità - emerge il classico tema gnostico dell'avvento del nuovo eone, verso il quale svolgono opera di guida gli iniziati alla gnosi, soli competenti a interpretare le attese confuse dei semplici (29). Non manca neppure, in questa verità ultima del romanzo - e della modernità -, l'estremo arcano della gnosi - antica e moderna -, cioè la riduzione di Dio a un'unità originaria indistinta che, in ultimo, coincide con il nulla. Sul finire della storia Adso chiede a Guglielmo: "Che differenza c'è allora tra Dio e il caos primigenio?". Sostenere che non esiste la verità, e quindi che da Dio non scaturisce un mondo ordinato ma un fascio infinito di possibili, "non equivale a dimostrare che Dio non esiste?". Guglielmo non lo nega, ma si limita a rispondere ambiguamente: "Come potrebbe un sapiente continuare a comunicare il suo sapere se rispondesse di sì alla tua domanda?". Qualche pagina dopo Adso conclude "Gott ist ein lautes Nichts", "Dio è un grande nulla", con una proposizione che trae dalla mistica renana ma che interpreta inequivocabilmente in senso gnostico, perché afferma di non credere più in un Dio personale ma solo in una "divinità silenziosa e disabitata" come abisso in cui "andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza" (30).
Che cosa può imparare il mondo cattolico dalla grande operazione propagandistica realizzata attraverso Il nome della rosa? Certamente una conferma, se mai ce ne fosse bisogno, del fatto che qualcuno ritiene assolutamente necessario sottoporre le folle a periodici bagni di menzogne sulla civiltà cristiana medioevale, insistendo sempre sugli stessi temi - i monaci, l'Inquisizione -, tanto più oggi a fronte del grave rischio che la nuova medievistica scientifica giunga, sia pure lentamente, a conoscenza del pubblico dei non specialisti e smantelli mitologie a cui certe forze sono straordinariamente attaccate. Il film, "mini-museo antireligioso posto dall'altra parte di una cortina di ferro sempre presente" (31), costituisce una facile iniziazione offerta a tutti affinché varchino la soglia ed entrino nel mondo del romanzo, dove si svelano gli arcani della modernità nella loro verità ultima, nichilista e gnostica. Lo scopo di Umberto Eco consiste certamente nel temprare "lo scettro a' regnatori", esaltando lo Stato laico moderno e la sua ideologia; ma talora - involontariamente, e sta qui l'occasione positiva offerta al mondo cattolico - anche "gli allòr ne sfronda" e "svela di che lacrime grondi e di che sangue" il potere svincolato dalla religione e dalla morale e sostenuto da filosofie relativiste o da miti gnostici. Se ne potrà ricavare, per diametrum, che la verità, e una politica che si lasci giudicare dalla verità, fa libero l'uomo, mentre la negazione dell'esistenza di una verità che si imponga anche ai principi - si tratti di Ludovico il Bavaro o del "moderno principe", come Antonio Gramsci chiamava il partito comunista - lo rende schiavo dei potenti di turno. Se poi la lettura de Il nome della rosa indurrà qualcuno a meditare seriamente, sia pure a partire da Gioachino da Fiore, sull'azione dello Spirito Santo nella storia, gli si potrà consigliare - in alternativa all'immensa posterità spirituale gioachimita, rivoluzionaria o "moderata" - la lettura dell'enciclica Dominum et vivificantem, dove l'intervento dello Spirito nella storia viene presentato nella sua forma corretta, radicalmente antiprogressistica, nel senso che la terza persona della Trinità - ben lungi dal venire a certificare la storia come progresso necessario verso una crescente "liberazione" - viene a "convincere il mondo quanto al peccato" anche nella sua dimensione storica. Si comprenderà allora che l'arcano ultimo della modernità come ideologia è il rifiuto di Dio, la "resistenza allo Spirito Santo" che trova "specialmente [...] nell'epoca moderna la sua dimensione esteriore" (32).
Massimo Introvigne
***
(1) Cfr. Scott Sullivan, Master of the Signs, in Newsweek (Atlantic edition), vol. CVIII, n. 25, 22-12-1986, p. 46.
(2) Sono parole del film, che riassumono un più articolato discorso del romanzo. È interessante notare che il film è stato prodotto anche con fondi della RAI, cioè dei contribuenti italiani.
(3) Umberto Eco, Il nome della rosa, 5a ed., Bompiani, Milano 1981, p. 273.
(4) Abele Redigonga, voce Gui, Bernard, in Enciclopedia Cattolica, Ente per l'Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico, Città del Vaticano 1951, vol. VI., col. 1274, con bibliografia.
(5)  Jean Dumont, L'Église au risque de l'histoire, Criterion, Limoges 1982, p. 217.
(6) Raoul Manselli, Le premesse medioevali della caccia alle streghe, in Marina Romanello (a cura di), La stregoneria in Europa (1450-1650), Il Mulino, Bologna 1975, p. 55.
(7) Cfr. Herbert Thurston S.J., La Chiesa e la stregoneria, in Satana (dalla collezione degli Etudes Carmelitaines), trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1953, pp. 199-208. A Roma, centro della cattolicità, risulta con certezza un solo giustiziato per stregoneria, nel 1424. Spesso, del resto, i delitti degli accusati di stregoneria non erano immaginari: la storiografia più recente non mette più in dubbio l'autenticità di casi di veneficio, omicidio rituale e simili.
(8  J. Dumont, op. cit., p. 215.
(9) Ibid., pp. 214-215.
(10) U. Eco, op. cit., pp. 58 e 384.
(11) J. Dumont, op. cit., p. 220.
(12) Cfr. Hans Urs von Balthasar, Teodrammatica, vol. I: Introduzione al dramma, trad. it., Jaca Book, Milano 1980, pp. 94-95
(13) Cfr. San Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, IIa-IIae, q. 168.
(14) Michel Villey, La formazione del pensiero giuridico moderno, ed. it., Jaca Book, Milano 1986, p. 167. M. Villey commenta (ibid., p. 171) un passo del satirico Roman de la Rose - a cui vi è forse una allusione nel titolo dell'opera di Umberto Eco -, nel quale si mette in scena il "monaco Falso-Sembiante, che è di sicuro un francescano". Il Roman de la Rose, a differenza de Il nome della rosa, esprime una posizione anti-francescana; ma l'allusione invita forse a cercare la vera dottrina sotto il "faux-semblant" della disputa sulla povertà.
(15) Cfr. Ernst Bloch, Philosophische Ansicht des Detektivroman, in Idem, Verfremdungen I, Suhrkamp, Francoforte 1962, pp. 37 ss.
(16) U. Eco, op. cit., p. 36.
(17) Ibid., pp. 494-495 e 481.
(18) M. Villey, op. cit., p. 185.
(19) Ibid., pp. 216-224.
(20) U. Eco, op. cit., pp. 349-360.
(21) "Nel mondo occidentale la sovranità illimitata venne raramente rivendicata in tutto il periodo dell'antichità", "non fu concessa ai principi medioevali, che la reclamarono raramente", e "sebbene venne richiesta con successo dai monarchi assoluti del continente europeo, non fu accettata come legittima fin dopo l'avvento della democrazia moderna, che sotto questo aspetto ha ereditato la tradizione dell'assolutismo" (Friedrich August von Hayek, Legge, legislazione e libertà. Una nuova enunciazione dei principi liberali della giustizia e della economia politica, ed. it., Il Saggiatore, Milano 1986, pp. 408-409). Sul ruolo di Guglielmo di Occam e di Marsilio da Padova nella genesi del moderno statalismo, cfr. soprattutto i sei volumi di Georges de Lagarde, Aux origines de l'ésprit laique, Nauwelaerts, Lovanio 1952-1961 (trad. it. dei primi due volumi: Alle origini dello spirito laico, Morcelliana, Brescia 1961-1965).
(22) U. Eco, op. cit., p. 358.
(23) Cfr. Georges Bataille, Le lacrime di Eros, trad. it., Arcana, Roma 1979, pp. 113-118, a cui corrisponde U. Eco, op. cit., p. 67.
(24) Cfr. Roger Peyrefitte, Le chiavi di San Pietro, trad. it., Longanesi, Milano 1968, pp. 26-27, a cui corrisponde U. Eco, op. cit., pp. 425-427. Sull'argomento cfr. l'indagine di uno scienziato contemporaneo, agnostico, Pier Luigi Baima Bollone, L'impronta di Dio. Alla ricerca delle reliquie di Cristo, Mondadori, Milano 1985, da cui si ricava che molte reliquie della Passione, affrettatamente giudicate false da una scienza imbevuta di pregiudizi anticattolici, sono probabilmente vere.
(25) In senso debole: scoprire le tesi nascoste non è poi così difficile.
(26) Henri de Lubac, La posterità spirituale di Gioachino da Fiore, 2 voll., trad. it., Jaca Book, Milano 1981-1984. Il tema delle eresie percorre quasi tutte le opere di Ernst Bloch: cfr., in particolare, il suo Ateismo nel cristianesimo. Per la religione dell'Esodo e del Regno, trad. it., Feltrinelli, Milano 1971.
(27) Il nome della rosa giunge in un momento propizio, che vede la rinascita di un certo gioachimismo speculativo presso teologi che rivalutano Gioachino da Fiore e - sulla scia delle discussioni intorno all'opera di Erik Peterson Il monoteismo come problema politico (trad. it., Queriniana, Brescia 1983) - vedono nel progresso verso forme democratiche una affermazione del principio trinitario contro un "monoteismo" che trascriverebbe l'idea di un Dio monarchico, non trinitario, in un ideale politico autocratico. Una sintesi delle posizioni di questa recente corrente teologica si può trovare in Bruno Forte, Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano, Edizione Paoline, Torino 1985. Per la rivalutazione di Gioachino da Fiore, che "ha saputo pensare storicamente la Trinità e trinitariamente la storia", cfr. ibid., pp. 81-87.
(28) U. Eco, op. cit., pp. 205-209.
(29) "Gnostiche" sono le interpretazioni del gioachimismo proposte da Ernst Bloch anche secondo H. de Lubac (op. cit., vol. II, p. 418), che ne segnala peraltro l'infedeltà rispetto alle intenzioni originarie di Gioachino da Fiore. Ma sembra al lettore dell'opera di H. de Lubac che il pensiero del monaco calabrese non possa avere esiti storici se non a condizione di essere "tradito", e dunque celi già in sé stesso almeno una sostanziale ambiguità.
(30) U. Eco, op. cit., pp. 496 e 503.
(31) Così scrive una delle maggiori medieviste viventi, Régine Pernoud, James Bond va in monastero, in 30 Giorni, anno V, n. 1, gennaio 1987, p. 65.
(32) Giovanni Paolo II, Enciclica Dominum et vivificantem, del 18-5-1986, n. 56.
Un uomo che è un uomo DEVE credere in qualcosa (dal film: il mio nome è nessuno)

Finnegan

#6
Tutto questo è vero ma il romanzo permette altri livelli di lettura. per esempio, dietro l'apparenza di parlare del Medioevo, Eco descrive l'oscurantismo contemporaneo, a partire dalle università che ben conosce fino all'assenza di una strategia culturale del nostro Paese.
Interessante l'interpretazione di Blondet delle opere di Eco come una critica della strategia culturale della casa editrice di stampo esoterico-iniziatico Adelphi:

"Naturalmente, l'ambiente da cui viene e in cui nuota a suo perfetto agio - per i nemici Calasso è «snob, elitario, legato ai circoli dei potenti» - gli consente senza alcun rischio ben altre trasgressioni. Al punto che Calasso ha potuto sfidare impunemente il semiologo-chic più amato dalla sinistra radicale: Umberto Eco. A dire il vero, pare che abbia cominciato Eco a prendersi non poco gioco degli «alchimisti» adelphiani, usando lo stesso strumento, il centone erudito. Da estremo illuminista, Eco ha usato quello strumento per dire - in sostanza - che dietro il mistero esoterico non c'è nulla: già nel Nome della Rosa, e con ancor più precisione satirica nel Pendolo di Foucault, dov'è questione - guarda caso - di una conventicola chiusa in una casa editrice, che s'im-magina un complotto: e fra immaginazioni esoteriche, riti e misteri, non si giunge che al delitto e al suicidio.
È una troppo chiara provocazione. «Eco vuol parlare dell'innominabile presente», replica Calasso.
Oltretutto, la fama di Umberto Eco rischia di diffondere un état d'esprit contrario alla direzione voluta dagli «iniziati». Gli adelphiani rispondono con un'operazione montata con grandi mezzi.
Quando Roberto Calasso pubblica nel 1988 il suo Le nozze di Cadmo e Armonia, praticamente contemporaneo al Pendolo di Foucault, l'intimo amico di famiglia Pietro Citati - un autore di biografie potente nell'oligarchia letteraria perché scrive su Repubblica - pubblica sulla prima pagina del giornale di Scalfari una recensione esaltante. In cui, è chiaro perfino ai redattori di Epoca' che così riassumono la querelle, «a un Pendolo di Foucault profano si contrappone un Nozze di Cadmo e Armonia sacro». Sic."
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Riverrun, past Eve and Adam's, from swerve of shore to bend of bay, brings us by a commodius vicus of recirculation back to Howth Castle and Environs

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